AIUTATEMI, HO PAURA DI ME
LA VISITA NEI REPARTI DI PSICHIATRIA DELLA LIGURIA
“Aiutatemi, ho paura di me”.
Ci sono tante cose che ci provocano terrore. Ma forse la peggiore è questa, quando ti accorgi che il nemico è dentro di te. Sei tu. E non c’è barriera, non c’è muro che possa tenerlo lontano, lasciarlo fuori. Dopo aver visitato il reparto di Villa Scassi adesso sono venuto qui, nel reparto di psichiatria dell’ospedale Galliera. Ascolto medici e infermieri nel corridoio che dedicano la propria vita ad assistere chi soffre di disagio mentale. Guardo, ma gli occhi, l’attenzione continuano a sfuggirmi verso le porte con i vetri smerigliati affacciate sul corridoi. Verso quel rumore continuo, ossessivo che arriva da una delle stanze: una pallina da tennis che rimbalza contro il muro. Una, dieci, cento, mille volte. Non la smette più.
C’è qualcosa che mi attrae e respinge. Vorrei vedere. Capire. C’è qualcosa che ci attira e respinge di fronte al disagio mentale. Sempre la stessa: il nemico è dentro di noi. Siamo noi. Questo smarrisce la persona che soffre e chi l’assiste. Questo crea la barriera terribile della solitudine.
Ci sono venti letti al Galliera. I ricoverati, mi spiegano i sanitari, soffrono soprattutto di schizofrenia, depressione. Ma anche, sempre più spesso, per le patologie generate dalle dipendenze. Droghe, soprattutto. Arrivano qui quando le famiglie chiedono aiuto. Ma c’è chi in preda alla disperazione bussa alla porta: “Vi prego salvatemi”. Semplicemente non riescono a vivere, non trovano un posto nel mondo. Alla fine non rimane che questo reparto. Il tso, il trattamento sanitario obbligatorio. Lo Stato che ti sottrae a te stesso per impedirti di fare del male, di farti del male. Dura sette giorni, alcuni chiedono di restare più a lungo. Ma poi, in un modo o nell’altro, devi ritornare nel mondo. Devi provare a vivere. A passi brevi, magari, passando per le comunità, anche se spesso sono l’anello debole. Spezzato.
Medici e infermieri mi parlano e intanto la pallina rimbalza. Tum, tum, tum senza fine. E io continuo a chiedermi chi ci sia dietro quelle porte. Tanti sono giovani. Tanti arrivano da case tormentate, perché “la famiglia spesso è la causa, ma anche la salvezza”. Queste famiglie disarmate, impreparate, smarrite. Spesso troppo sole perché la rete dell’assistenza sociale senza mezzi e senza persone non regge.
Sì, tanti giovani. I loro dolori hanno nomi che dieci, quindici anni fa nemmeno conoscevamo: sindrome bipolare, disagio ambientale, disturbi dell’umore, agitazione psicomotoria. Finiscono qui alla fine della loro sofferenza, arrivano nelle mani energiche e delicate di queste donne. Questi uomini. Ma dovremmo pensarci prima. Noi politici, la nostra comunità. Ci sono le dipendenze, mi spiegano i medici, che spezzano la mente, ma c’è stato il distacco dal mondo imposto dal Covid. Ci sono anche questi nuovi strumenti di comunicazione che ti fanno dialogare, parlare, senza vedere e toccare. Ed eliminano il contatto con la realtà. Ci sono anche ragazzi migranti, alcuni arrivati con i barconi, altri cresciuti in famiglie che vivono nel nostro Paese, ma sono separati ed esclusi. Che non hanno i mezzi, le parole, per affrontare il disagio quando si manifesta.
E alla fine dell’imbuto si ritrovano qui. Ecco, una porta si apre, mi passa accanto un ragazzo. Mi guarda con occhi di vetro come fossi trasparente.
Tanti ce la fanno. Ma è soltanto l’inizio di un percorso. Vivere. “Dottoressa – ha detto un adolescente uscendo dal reparto – mi hai salvato la vita, ma adesso non so cosa farmene di questa vita”.
È assurdo, mi dice una madre in piedi davanti alla porta del reparto, ma a volte viene quasi da desiderare un male che si possa vedere con una radiografia, che si possa togliere con una lama. Una sofferenza che non sia come quella che ha colpito suo figlio, che si è infilata in quella zona invisibile di noi. Mente, anima, nemmeno sai come chiamarla.
Certo esistono ormai medicine, pastiglie. Esistono terapie. Ma come il male anche la cura non sempre si vede, non si può prescrivere a dosi precise, e si chiama amore.
Saluto i medici, gli infermieri. Gente che non è qui soltanto per lo stipendio, che si porta dentro tutto anche a casa. In questo reparto non basta togliersi il camice, disinfettarsi le mani.
Li saluto. Esco dal reparto, dall’ospedale, cammino per la strada. Ma ancora sento quel rumore della palla sul muro: tum, tum, tum.
MARETA IL PAESE DELLE ROSE
IN VIAGGIO NEI BORGHI DELL’ENTROTERRA
A Mareta ho contato quaranta case. Forse quarantuno perché poi ce ne sono alcune su per il bosco, come se fossero scappate dal paese.
Strana cosa, mi ero allontanato da Genova perché mi aveva preso la fatica delle auto, dei rumori, della folla. Succede. Come tante altre volte, appena gli impegni del Consiglio Regionale mi consentono di allontanarmi dal Palazzo di via Fieschi, vado in giro per la Liguria. E’ essenziale: incontrare le persone.
Stavolta sono salito a Savignone, poi a Casella. Ho camminato nella bella piazza, all’ombra della torre. Ho parlato e ascoltato problemi, idee e proposte. Fatiche. Ho mangiato e preso un caffè.
Poi sapete come succede in quei momenti, mi ha preso la voglia di andare ancora più su, dove c’è più silenzio. Così ho incontrato un paese con dieci persone, uno con cinque. Sono arrivato a Tonno dove ne ho incrociate due, marito e moglie che tagliavano l’erba sul sagrato della chiesa. Mi hanno raccontato dei cinghiali, dei muretti che crollano.
Non c’era nessun altro anche se da una casa arrivavano dei colpi come di martello. Tre persone, forse. Ma sembrava non bastarmi ancora. Non so come, deve pur esserci stata una freccia, un’indicazione, qualcosa che mi ha portato fino a qui. E adesso sono a Mareta. Che si chiami così lo dice un cartello all’ingresso, perché non c’è proprio nessuno a cui chiederlo.
Tant’è mi sono messo a camminare per le stradine, sempre in salita, ma alla fine arriverà bene la discesa.
Mi sono arrampicato su fino alla cappella di San Giacomo, agli affreschi del ‘600 così semplici, quasi infantili, come dev’essere in fondo la fede. Tratti puliti, decisi, senza fronzoli.
Adesso me la guardavo dall’alto, Mareta. Le quaranta case – forse quarantuno – e tutti il resto. E c’era un’unica persona a farmi compagnia, che poi ero proprio io, come se lo avessero costruito proprio per me tutto il paese. Guardavo e pensavo; avrei voluto anche dirlo a qualcuno che era bello, condividerlo, ma non vedevo anima viva. A Mareta ci sono le finestre aperte e dentro tavoli, bicchieri, una bottiglia mezza vuota, ma nessuno che sia lì per bere. Ci sono rumori, perché i paesi fanno rumori anche quando li lasci soli – gatti che miagolano, persiane che sbattono, legni che scricchiolano, gocce che cadono dalle grondaie – ma nessuno che ascolti. Ci sono le cassette della posta, lettere che sporgono, ma nessuno che le legge. Ci sono campanelli che suonano (li ho provati uno per uno), ma nessuno che ti apre. C’è la legna raccolta per l’inverno – chissà quale, se quello appena passato o uno di cinquant’anni fa – ma nessuno che la mette nel camino e si riscalda. C’è la chiesa, proprio in cima a tutto, per sorvegliare e per proteggere, ma non si vede nessuno che prega. Speriamo almeno ci sia rimasto Dio se non si sentiva troppo solo. Ma soprattutto ci sono le rose. Rose dappertutto. Rose davanti a un portone abbandonato, sotto un pergolato dove nessuno prende l’ombra da decenni. Rose in un giardino che ormai il bosco se lo è mangiato. Rose di cui nessuno respira più il profumo, che nessuno più raccoglie, anche perché non saprebbe qui a chi darle.
Ma ci abita ancora qualcuno su a Mareta?, ho chiesto al postino quando sono tornato a valle. Ha alzato le spalle, forse sì, forse no. Non si sa.
Ma ci sono ancora le rose. Resistono, in attesa di un ritorno magari. Così ne ho staccato una (ditemi voi se è un furto, ma non c’è nessuno a cui rubare). Perché se qualcuno prende una rosa, ho pensato, allora non sono soltanto quaranta case. È ancora un paese.
CHE COSA FA FIORIRE UNA ROSA
QUEL REGALO DOPO UNA VISITA NEL CARCERE FEMMINILE
Così il mese scorso – ve lo avevo raccontato – siamo andati in carcere a Pontedecimo. Era la Festa della Mamma e la direttrice ci ha ricordato che su 67 carcerate ben 52 hanno dei figli. Non ci avevamo forse mai pensato, non le avevamo mai viste così: madri, prima che detenute.
Noi consiglieri comunali, regionali e parlamentari camminavamo per i corridoi e affacciandoci alle celle magari ognuno pensava alla propria mamma. Qualcuno forse l’aveva a casa ad attenderlo, altri si sono ricordati di andarla a trovare appena usciti, qualcuno non ce l’ha più. Ma in qualche modo ci pareva di vederle, in carcere. Insomma, ci ha preso a tutti un sentimento strano, quasi dolce. Proprio lì, tra le celle, con quel cielo che ha una grata davanti. Delle sbarre.
A volte sembra così anche per l’amore, c’è sempre un ostacolo in mezzo. Il tempo, la fatica, la morte.
Comunque sia a un certo punto mi sono trovato davanti questa donna. Parlava con la direttrice, le diceva: “Vi chiedo soltanto una cosa, lasciatemi andare a vedere la tomba di mia mamma. È sepolta a Staglieno. Lasciatemi portare una rosa”.
La direttrice ha preso una penna, si è segnata il numero del campo, della tomba. Sapete com’è, a Staglieno ci si perde, è come una città. Io non so perché, ma ho origliato, ho sbirciato il numero di quella tomba. E non c’è stato verso di dimenticarlo, mi è rimasto dentro tutta la giornata. Continuavo a pensarci e ripensarci.
Così alla sera ho sentito la mia amica Chiara. Non so perché gliel’ho raccontato, le ho ripetuto quei numeri che mi ero annotato nella testa.
Sono passate poche ore e sul telefonino mi è comparsa questa foto: una rosa rossa sulla tomba di Staglieno. Chiara ha comprato il fiore, ha camminato tra centinaia di croci, ha trovato la tomba. Sono sicuro, se la conosco bene, che oltre al fiore ci ha lasciato anche un pensiero.
E io oggi sono qui. Penso al filo misterioso che adesso lega queste due donne dai destini così diversi. Donne che non si conoscono, che probabilmente non si incroceranno mai.
Sono qui che penso a quello che fa fiorire una rosa.
QUALCHE PICCOLO CONSIGLIO
LIBRI/1 IL CROLLO DI MARCO GRASSO, LA VERA STORIA DEL PONTE
LIBRI/2 QUANDO LA VITA E LA LOTTA IN FABBRICA DIVENTANO ROMANZO E POESIA
Le fabbriche esistono ancora.
Una volta le fabbriche erano uno dei luoghi simbolo delle nostre città. Soprattutto in Liguria.
Gli operai e le tute blu erano una figura chiave della nostra società.
Ora sembriamo essercene dimenticati. Siamo tutti imprenditori. Siamo tutti piccoli Berlusconi.
Ma questo mese mi sono capitati tra le mani due libri che parlano proprio di questo: della fabbrica.
Il primo si chiama semplicemente così, “Poesie” (edizioni Punti di Mutamento), l’autore è Ferruccio Brugnaro che tra il 1950 e il 1980 ha lavorato a Porto Marghera. “Il poeta operaio”, è stato chiamato. E’ un vecchio libro, non più in commercio, a volte si trova usato su internet, sennò potrebbe essere una buona occasione per andare in biblioteca e cercarlo. E… sì, se qualcuno se lo è chiesto, Brugnaro è il padre di Luigi Brugnaro, imprenditore e sindaco di centrodestra di Venezia.
Il secondo è attuale, “Alla linea” (Bompiani), di Joseph Ponthus, professore che ha lavorato come operaio in uno stabilimento di conservazione del pesce. Una meteora nella vita e nella scrittura: nato nel 1978 e morto nel 2021. Questo è il suo unico libro. Forse si potrebbe definire un romanzo in forma di poesia.
Non è soltanto l’ambiente descritto a unire i due volumi, cioè il lavoro e la fabbrica. Ma, appunto, la poesia che può nascere ovunque nella vita. Come scrive Ponthus: “Non la desolazione della fabbrica, ma la sua paradossale bellezza”.