FILI
Voi là fuori non avete mai visto un bacio così, ve lo assicuro. Era da un po’ che li tenevo d’occhio quei due: c’era la ragazza, parlava con la faccia vicina, sempre più vicina alla lastra di plexiglas che li divideva. E il suo uomo, da questa parte, che stava proteso in avanti con i bicipiti coperti di tatuaggi tutti tesi, con i gomiti appoggiati al bancone. Oddio, non so neanche se si stessero davvero dicendo qualcosa, la conosco quella situazione, ci sono passato mille volte: è sussurrare, pregare, desiderare. Non è parlare, mentre vedi l’orologio al muro che si mangia gli ultimi secondi. Nel parlatorio c’ero soltanto io, stavo facendo le pulizie perché mi tocca una volta la settimana, le guardie e quei due ragazzi. Faceva così caldo che i rumori restavano sospesi nell’aria: il treno delle due, un camion da qualche parte, forse sull’autostrada e mosche, le solite mosche che ti si attaccano alla faccia, non ti lasciano in pace nemmeno in quei momenti.
Bé, a un certo punto la guardia ha guardato l’orologio, forse dentro di sé ha contato fino a dieci per pigrizia o per carità, poi si è avvicinata all’uomo e gli ha messo una mano sulla spalla: “Vieni, è finito il tempo”. E’ successo tutto in un istante, il ragazzo è saltato su come una molla, ha messo un piede sulla sedia e poi è montato in ginocchio sul tavolino, e lei, la donna, ha fatto lo stesso dall’altra parte. Hanno superato la lastra trasparente e si sono baciati così forte da farsi quasi male, hanno preso ad accarezzarsi che non capivi se era rabbia o amore, ad abbracciarsi come se stessero per farlo lì, proprio sul tavolino. “Fermi!”, ha detto l’ispettore, prima piano, poi più forte. “Faccia qualcosa, Cristo!”, ha urlato alla guardia. Quella, però, è rimasta immobile. Si è voltata verso il superiore con gli occhi spalancati, “Capo…”. Era tutto un agitarsi, un urlare, “Vada lei, presto”, si sono rivolti a me, ma io mica sono un agente, sono un carcerato. E intanto nessuno faceva niente. Tranne quei due, ovviamente, che erano lì in ginocchio sul tavolo, le mani di lui che le toccavano la faccia, le spalle, le gambe; lei che rideva o piangeva, forse tutte e due le cose insieme.
Come dio vuole alla fine si sono separati, li hanno divisi, chissà. Non saprei dire quanto sia durato, forse pochi secondi. Il ragazzo adesso se ne stava in piedi davanti al tavolino con il braccio teso verso la donna, con l’indice puntato verso un punto preciso, sul cuore. Lei ansimava, la gamba ancora piegata sulla sedia, il rossetto che era uscito dalle labbra. Si passava le mani spesse sulle guance, si guardava i polpastrelli anneriti dal nero del trucco tutto sciolto. Le era caduta perfino una scarpa, una di quelle che la mia fidanzata chiama decolleté, con i tacchi alti che vanno bene per andare a una festa, mica per venire qui in prigione. E c’era un odore strano, un misto della solita puzza di sudore e detersivo, e di quei profumi da quattro soldi.
“In cella!”, deve aver detto l’ispettore. Ma nessuno sembrava farci troppo caso, perché il ragazzo continuava a ripetere quella parola: “Amore”. E la tipa dall’altra parte uguale: “Amore”. E di nuovo “Amore”, ancora “amore”, finché si è sentito il ciocco secco della porta di metallo che si è mangiato tutto.
“In cella!”, ha ripetuto il capo delle guardie, con un tono come se urlasse, ma senza convinzione. E si è acceso una sigaretta con rabbia, come se dovesse bruciare qualcosa che lo scaldava dentro. Forse soltanto stanchezza, forse invidia, perché lui sarà pure libero, ma di baci così di certo non ne vede mai quando la sera arriva a casa e caccia sulla sedia la sua divisa piena di sudore, di sporco anche se è immacolata. Piena di prigione.
“Andiamo”, ha detto la guardia prendendoci sottobraccio, a me e al tipo del bacio. Aveva le labbra sottili che non si capiva se stesse per ridere o per sibilare una bestemmia e così siamo saliti in silenzio su per le scale, noi davanti e lui dietro, con gli sguardi bassi. Sei scalini a destra e sei a sinistra, ormai l’ho imparato a memoria: cancello 1. Altri sei a destra e sei a sinistra: cancello 2. Il ragazzo posso immaginare cosa pensasse: si strofinava il braccio contro il naso per sentire ancora l’odore, chiudeva gli occhi immaginando la pelle di lei per amore o per ricordarsi di essere uomo. Ma anch’io ero sottosopra, lo stomaco in gola senza capire bene perché.
Speravo soltanto di fare presto, di arrivare su in cella e di cacciarmi in gola una pastiglia. E che… non so spiegare… ma qui dentro tutte le cose belle finiscono per farti male. Anche vedere un bacio in fondo è un dolore. Anche ricevere una pacco da tuo padre e tua madre, dalla tua donna: aspetti per mesi, un giorno ti accorgi che il carrello della posta si ferma proprio davanti alla tua cella, senti chiamare il tuo nome “Paternò”, e tra le sbarre ti passano quella scatola avvolta di carta marrone. La prendi… facciamo tutti così, vi giuro, e non so perché… te la passi fra le mani, la accarezzi e infine la apri. Dura cinque secondi il piacere, mentre trovi la solita lettera, il salame piccante, i pistacchi, tutta quella roba lì, ma non fai in tempo a metterteli in bocca che già cominci a soffrire e vorresti cacciare tutto dalla finestra. Voglio dire… se non arrivasse sarebbe anche peggio, vorrebbe dire che si sono dimenticati di noi, ma alla fine quella roba ti ricorda soltanto quello che non hai. Ti dice che è soltanto colpa tua se sei rinchiuso.
Lo so, se lo chiedi qui dentro tanti ti dicono che sono innocenti. Sarà pure vero, francamente a me non importa, quello che conta non è ciò che hai fatto, ma la sentenza, il timbro. È l’unica verità. Amen. E poi ne ho visti tanti, come quel tale, Malinverni, che era in cella con me. All’inizio quando spegnevano le luci, perché è sempre quella l’ora che ci si lascia andare, lui lo diceva cosa aveva fatto, eccome se lo diceva. Si vantava pure, scendeva nei dettagli, rideva con i denti tutti in fuori da lepre. Poi con i mesi si è fatto più silenzioso, ha cominciato a usare i condizionali, a dare la colpa all’avvocato, al giudice e così via. E alla fine un giorno se n’è uscito che era tutto un errore, che era innocente fatto e finito. Ha detto così, seduto sul letto, con i gomiti sulle ginocchia e le mani sui capelli: “Io mica ho fatto niente”. Ci credeva pure, ma io che cosa potevo dirgli? Non aveva senso e comunque non mi andava di litigare, di finire a prenderci a pugni, perché non avete idea di cosa voglia dire odiarsi con il compagno che ti sta nel letto accanto mentre dormi, che ti potrebbe sputare nel piatto. “Sì, sì”, gli ho fatto. Intanto cosa cambia? Si è assolto, non è mica facile accettare che te la sei voluta.
Ma io no. Se volete, vi racconto cosa ho fatto. Niente di eccezionale, poi, in fondo. Non c’è passione, non c’è sangue, non ho ucciso nessuno o almeno credo. Per farla breve avevamo una ditta di costruzioni, andava tutto come doveva andare. Gli affari li facevano mio padre e mio fratello… non è che voglia dare la colpa a loro, non sono il tipo, a me andava bene così e non mi facevo troppe domande. Io sono quello che ha studiato in famiglia, sono geometra, facevo i progetti. A un certo punto ci è venuta l’idea che se in Comune ci fosse stato uno di noi… bé, sarebbe stato tutto più semplice, capite cosa intendo. Così mi sono buttato in politica, ho cominciato a fare qualche discorso, a girare per bar e per case promettendo questo e quell’altro. Alla fine mi sono candidato e sono stato nominato assessore nel nostro comune. Era diventato tutto facile: la casa nuova con la piscina, il suv Audi in leasing, i viaggi in Thailandia, i vestiti eleganti, le camicie bianche. La gente che mi salutava per strada come non aveva mai fatto prima, piegando un po’ la testa. A noi, ai terroni. E lì sono cominciati i guai, non scendo nei dettagli: una mattina ci è arrivata la polizia sotto casa, ricordo ancora le luci violette dei lampeggianti attraverso le tapparelle, e ci hanno portato via. Uno, due e tre: padre e figli. Mia madre urlava, ci è corsa dietro per le scale e mi ha infilato un sacchetto di pastelle nella tasca. Lo ricordo perché l’agente… un tipo in borghese che veniva dalla città… me l’ha preso e l’ha cacciato per terra. Sono rimasto dentro tre mesi, una roba del genere, poi sono uscito, ma quando la mattina dopo sono tornato al cantiere c’erano i sigilli. Il conto in banca neanche potevo toccarlo. A quel punto cosa potevo fare? Capiamoci bene, non voglio fare la vittima, ma mettetevi nei pieni panni. Comunque sia… un giorno sono andato da mio cugino, quello che ha una pizzeria vicino alla stazione, e gli ho detto che stavo con le pezze al culo. Lui mi ha preso sottobraccio, mi è venuto con la faccia vicino e ha cominciato a sussurrarmi delle cose. Poi mi ha messo in mano un mazzo di chiavi, mi ha dato un furgone bianco e mi ha detto di andare a far consegne: televisori, radio, roba così. Ma ovviamente non era quello il punto, alla fine sollevavo il pannello di gomma della ruota di scorta e quelli si infilavano in tasca dei sacchetti. Sì, era droga, non facciamola tanto lunga: hashish, coca, forse anche eroina. Dove finiva? Facevo finta di non saperlo. Ho… ucciso? Credo di no, lo spero, ma, se devo essere sincero, non me lo sono chiesto più di tanto. Occhio non vede… funziona proprio così. È andata avanti qualche mese, senza pensare al domani, a quel punto mi bastava tirare avanti. Una volta che hai cominciato non ne esci più. E alla fine è successo quello che doveva succedere, sono tornate le luci violette, le manette, le urla di mia madre. E mi sono ritrovato qui. Mi sono preso pure il 416 bis, cioè la mafia. Sono mafioso? Forse sì, non so, chiamatela come volete, per me era la mia famiglia, era mio cugino. In tutto fanno quindici anni e sei mesi in primo grado, poi ci saranno l’appello e la Cassazione. A me basta uscire che sarò ancora un uomo, adesso ho trentasei anni e con la buona condotta forse prima dei cinquanta sono fuori. Almeno così diceva l’avvocato. I primi tempi veniva spesso, con il suo completo grigio, la cravatta a righe rosse, i capelli a spazzola come un militare. E i polsi pelosi, chissà perché mi è rimasto tanto impresso, ma stonavano con i polsini bianchi e inamidati. Arrivava qui, poggiava la borsa di pelle sulla sedia e tirava fuori i suoi fogli. Io facevo segno di sì con la testa, lui leggeva, finché a un certo punto guardava l’orologio – di striscio, in modo elegante, da avvocato – si alzava e passava una mano sulla sua bella borsa come se a stare qui dentro si fosse sporcata. Veniva spesso, all’inizio, poi chissà forse ha capito che siamo pesci piccoli, che eravamo caduti in disgrazia e da noi non c’era molto da spremere o da temere, e così ha preso a mandare la sua assistente. È una ragazzetta che quando entra nel parlatorio si guarda intorno come fosse allo zoo e mi osserva tipo una bestia rara: “Ho conosciuto un mafioso”, sono sicuro che la sera al bar racconta così ai suoi amici.
Insomma, le prove ci sono, i testimoni immagino anche. I prossimi dieci anni, se va bene, io me li passo qui dentro. No, non credetevi che non me ne importi niente, ci sono notti che digrigno i denti a pensarci. Allora apro la finestra, tiro fuori una mano tra le sbarre e sento l’aria che viene da fuori. Ma non posso farci niente. Punto. Devo mettermi il cuore in pace. E comunque… io non sono tipo da piangermi addosso. Non sono uno di quelli che camminano per i corridoi e fermano chiunque per parlare. Per raccontare le loro rogne. Io sono uno che si fa i fatti suoi: guardo la televisione, faccio ginnastica in quella specie di palestra; quando capita leggo, mi sono messo anche un po’ a studiare… che poi non impari niente qui dentro, viene un tizio ti racconta due cose e se ne va di nuovo fuori. Ma almeno è un modo per tenerti la testa impegnata. Ecco, l’essenziale è non pensare e far passare gli anni. In fondo noi qui dentro possiamo fare soltanto una cosa: lasciar passare il tempo. Che poi vorrebbe dire che giorno dopo giorno se ne va anche la nostra vita.
Ma… ripeto… è andata così. Poteva andare meglio, c’è però chi se lo porta via un cancro.
Io accetto tutto, ma c’è una cosa, una soltanto che non riesco proprio a ingoiare: Tiziana, la mia donna. Perderla, intendo. Voi che state fuori non potete capire. Che poi non so mica che senso ha dire ‘mia’, se posso telefonarle soltanto quando la direttrice mi dà il permesso e non se, per dire, mi prende il bisogno di dirle che ho bisogno di lei. No, devo aspettare, devo seguire l’orario, lasciare che il tizio dell’altra cella abbia parlato e alla fine, quando me la trovo davanti sullo schermo…. se n’è andato via tutto, mi prende il terrore di non avere più niente da dire. E resto zitto. Dovreste vederla, quando compare sul computer, con la minigonna, come piace a me, con i capelli raccolti in una coda nera nera, con la camicetta aperta al punto giusto e gli anelli di sua mamma. “Sono vestita bene?”, mi chiede. E io non so mai cosa dirle, perché mi fa un po’ pena conciata che vorrebbe sembrare elegante come le mogli della gente perbene e invece lo vedi subito che è la donna di un carcerato. Che si è messa così anche per farmi arrapare, perché così immagina di farmi felice e invece mi fa stare male.
Ce ne stiamo uno davanti all’altro a mille chilometri di distanza; lei che cerca di fare il suo sorriso anche se non le viene, che sgrana gli occhi neri… tutti neri, senza il bianco intorno, capite cosa voglio dire… per mostrarmi le ciglia lunghe e si guarda intorno perché sa che accanto a me c’è una guardia che l’ascolta. “Come stai, amo’?”, “Bene e tu?”, “Il lavoro?”, “E i tuoi genitori?”. Al massimo “Mi manchi tanto, ti vorrei… dare un bacio”. E’ tutto qui quello che riusciamo a dirci, a me, però, non me ne importa niente di come sta suo padre, se sua sorella Samantha è incinta. Ma mica è colpa sua, che cosa gli puoi chiedere a uno che sta in carcere giorno e notte a non fare niente? Se il compagno di cella ha ancora le crisi di astinenza, se ha visto l’ultima puntata di X-Factor alla televisione? Come parli rischi di sbagliare, di mettere imbarazzo, e allora scende giù un silenzio terribile, “Scusa, amo’… non volevo”. “Ma figurati, non è mica colpa tua”. E i cinque minuti sono già passati, suona il campanello, clic e lei scompare di nuovo per una settimana. E io non faccio in tempo a fare le scale, a sentire la chiave che gira nel cancello che già mi vengono in mente le cose che dovevo dirle e non ci sono riuscito.
Che cosa vuol dire la ‘mia donna’ se l’ultima volta che l’ho toccata, ma toccata per davvero, saranno stati quasi due anni fa? Ci avrei potuto fare due figli in questo tempo e invece non ne è venuto fuori niente. Il mio seme io me lo tengo per me, per il lavandino, per le notti quando sento Giuseppe che russa nella branda di sopra e non può sentire la mia rete che cigola, il mio respiro rauco. E lei chissà, magari proprio nello stesso momento è nel suo letto con le mani in mezzo alle gambe… E’ assurdo lo so, ma i primi tempi al telefono provavamo a darci degli appuntamenti, “amo’, questa sera a mezzanotte”, “ma proprio a mezzanotte che sennò quando tocca a te, ho già finito”, e ridevamo. Sì, riuscivamo ancora a ridere. Ma una volta mi sono girato e ho visto la guardia che sorrideva e mi è passata la voglia, come se a mezzanotte potesse esserci anche lui, se potesse guardare l’orologio e immaginarci così che ci toccavamo come due cretini nei nostri letti, io a Udine e lei… no, non mi va di dirvi dove abita.
Che cosa vuol dire la ‘mia donna’ se non ti ricordi nemmeno più l’odore che ha? Perché lo so che prima di entrare nel parlatorio va in bagno e si riempie di profumo, se lo mette sotto i vestiti, sul collo, nelle narici per non sentire questa puzza, ma dopo cinque minuti che è qui tutto sa di vernice, di sporco, di metallo. È tutto di ferro e di acciaio qui dentro, i rumori dei cancelli che si chiudono e si aprono, delle chiavi che girano. Sono di ferro e acciaio anche i colori, perfino il sapore di queste schifezze che loro chiamano pastasciutta al pomodoro e minestrone. Ma non c’è sugo, non c’è verdura, dentro sembra che ci mettano le viti delle serrature, la ruggine delle sbarre. Me lo sento sulle gengive, sulla lingua, nelle narici. Ce l’ho nella pelle, ormai.
Era chiaro che sarebbe finita così, ci avevo già degli amici che era finiti al gabbio. Non è che non ci pensassi, ma quando le cose andavano bene non ti preoccupi del futuro. Almeno, io sono così, non sono un filosofo. C’era soltanto il presente, e mi piaceva. Insomma, la nostra era una famiglia che si era sempre rotta la schiena, era giusto che fossimo premiati, non importava come. E poi quando cominci non è così facile fermarsi: avevo sempre girato con quelle Fiat scassate che appena cominciava la salita dovevi mettere la prima e d’improvviso mi ero ritrovato dentro un’Audi con i sedili in pelle, il cambio automatico e la climatizzazione bizona… non so se sapete cosa significa… che da una parte fa caldo e dall’altra è freddo. “Può anche scegliere l’essenza”, mi aveva detto il concessionario e mi aveva dato un flacone blu alla lavanda e uno giallo alla vaniglia. Tiziana l’ho conosciuta così, come succede sempre, una sera al bar del paese. A dire la verità ero andato là per la sua amica Jessica, tutti noi la cercavamo. Ma poi… l’avevo notata, non so perché, non era la più bella del gruppo. Non mi va di stare a raccontare queste cose, in fondo non se lo merita con tutto quello che le ho fatto sopportare, ma aveva le caviglie spesse, la vita larga che cercava di stringere con una cintura tirata tirata e… anche le dita… Insomma, era tutta un po’ grossa. Non era nemmeno la più alta, ma c’era qualcosa di diverso in lei. Non era come le altre che erano sempre lì giocare, a far finta di non guardarti, a parlarsi fitto fitto nelle orecchie. Tiziana no, se ne stava dritta in piedi con lo sguardo fisso, le labbra spesse con il rossetto troppo pesante. “Vieni”, le avevo detto, tanto per dimostrare che a me basta chiamarle le donne. Lei era venuta, ci eravamo seduti al tavolo. Poi le avevo messo davanti un bicchiere di qualcosa… un gin tonic, una vodka… con una bandierina rossa sopra e del ghiaccio. E lei lo aveva bevuto, senza chiedere niente. Parlavo, parlavo tanto e lei mi ascoltava. A volte rideva, a volte faceva cenno di sì con la testa. Ma io non riuscivo a capire cosa pensasse davvero, mi sembrava che avesse soprattutto bisogno di essere protetta. Così, senza dire una parola, mi aveva seguita in auto, eravamo andati fino al laghetto prima del bosco ed eravamo rimasti in silenzio. Sarebbe bastato allungare una mano per toccarla, di certo non si sarebbe tirata indietro, forse avrei anche potuto infilarle le dita sotto la maglietta, avrei potuto sollevarle la gonna. Eppure non avevo fatto niente, neanche un bacio, intendo. Comunque eravamo stati bene, è stata la prima volta che mi sono sentito davvero insieme con una donna. Che non mi era rimasta dentro quella tensione… non so se mi spiego. Sarebbe potuto andare bene così, mi era capitato di incrociarla di nuovo per strada, le avevo fatto ciao, lei, questo me lo ricordo bene, aveva dato una specie di carezza alla vernice luccicante della mia auto. Ci era scappato forse un sorriso. Ma dentro mi era rimasto quel dubbio: forse non mi piace abbastanza o sono io che non le piaccio. Deve essere stato per quello, per la curiosità, che un’altra sera sono andato in piazza e dopo essere sceso dall’auto ho puntato dritto verso di lei: “Vieni”, le ho chiesto. “Dove?”, mi aveva risposto, ma già aveva preso la borsetta rossa appoggiata su una sedia, già si era guardata riflessa nella vetrina di un negozio per vedere se aveva i capelli a posto. “Non so”, mi ero passato l’indice nel colletto della camicia. È cominciata così, senza tante spiegazioni. Lei non me ne ha mai chieste, nemmeno quella mattina che me la sono ritrovata davanti, seduta sui gradini della caserma dei carabinieri mentre me ne uscivo con le manette ai polsi. Non mi ha chiesto cosa avevo fatto, se ero innocente o colpevole, immagino che lo abbia sempre saputo. No, non intendo dire che le piacciano i miei giri, ma in fondo le importa soltanto di me, di quello che sono. Lei si fida, è l’unica che ha fiducia in me. E quella mattina all’alba… erano ore che aspettava lì davanti con una tuta grigia, le scarpe da ginnastica e i capelli tutti disordinati… si era alzata e si era messa in mezzo tra me e la guardia, mi aveva chiuso un bottone, mi aveva sistemato la camicia come se dovessi andare a un appuntamento e poi mi aveva guardato dritto negli occhi. Senza dire una parola. Senza una lacrima.
Che cosa credete, che non mi preoccupi di Tiziana? Io sono una persona normale, ma passo le giornate qui dentro a pensare. E lo so, lo capisco benissimo, che è più difficile per lei che per me. Io ho una cella da cui non posso uscire, mi danno da mangiare. Non posso decidere niente, a parte impiccarmi alle sbarre come fa qualcuno. È tutto più facile, in fondo, senza la libertà. Ma lei deve alzarsi la mattina, uscire, lavorare, campare. Lei potrebbe andarsene via, essere felice. Lei può decidere, io no.
È soltanto per colpa mia se non lo fa. Perché non è vita stare lì aspettando l’appello, la Cassazione e chissà cos’altro, mentre il tuo corpo secca come una pianta senz’acqua. Non è vita passare mesi e anni senza qualcuno vicino, non dico soltanto il sesso, certo, anche quello, ma proprio le carezze, i baci. Come fai a capire che esisti se un altro non te lo dice, se non ti guarda, se con le mani non ti ricorda dove inizi e dove finisci? Ti perdi, impazzisci.
E poi, certo… ci sono i figli. Credete che non pensi anche a questo? Vi sbagliate. Ci sono sere che mi sembra di vederli, non so se sono qui in cella, ma mi stanno vicini, mi camminano intorno. Sono tre, tutti maschi, gli ho dato anche un nome: Carmine, come mio padre, Luigi e Cosimo. Carmine mi somiglia, ha il naso spesso, i denti grandi; non è alto, sta sempre con il petto in fuori, come se fosse sempre pronto a venirti addosso, ma dev’essere un modo per difendersi, è un buono. Lo so, lo vedo che vorrebbe consolarmi, ma non sa come fare, perché in fondo sono sempre il padre… e mica si può proteggere un padre. Luigi ha sempre una maglietta bianca, di quelle attillate. Estate o inverno non importa. È bello, se lo sente, si passa sempre le mani sul ciuffo che gli copre la fronte, cammina avanti e indietro con quei suoi piedi troppo grandi e le scarpe da ginnastica bianche. A volte si avvicina alla finestra e guarda fuori, gli piacciono le luci, ascolta le urla dei tifosi che arrivano dallo stadio qui accanto. La gente libera. E Cosimo… parla, parla sempre, ha la voce di mio fratello quando eravamo bambini e di notte non stava mai zitto perché aveva paura del buio. A volte dormo attaccato al muro per fargli spazio sulla coperta, anche se è ruvida, anche se puzza. Chissà se si vergognano di me, a volte mi chiedono perché sono finito in prigione e allora io glielo racconto, cerco di essere sincero. “Ho sbagliato”, dico, ma in fondo chi lo sa cosa è giusto e cosa sbagliato.
Lo so, è assurdo, ma bisogna avere qualcuno con cui parlare sennò si impazzisce. Ci sono quelli che alla sera si fanno il segno della croce, appoggiano la fronte all’immagine di Padre Pio. Ci sono quelli che si inchinano verso La Mecca o chissà cosa. C’è chi impreca e bestemmia, chi prende a calci il letto, ma è pur sempre un modo per comunicare. Il guaio, credetemi, è proprio quando ti chiudi in te stesso. Io mi sono trovato questi tre ragazzi anche se non nasceranno mai, se sono finiti nel cesso. E giù, tira l’acqua, addio. Ma tra quindici anni potrei ancora averne di figli e chissà se gli dirò tutte le parole che ho detto a tutti questi tre oppure se sarò capace di dargli soltanto la mia stanchezza, la rabbia. Il veleno.
Ma una donna no. Tiziana no. Me le ricordo le notti che me ne parlava, quando io cacciavo per terra il preservativo e lei sentiva il caldo che le si spegneva dentro: “Ma tu, Giuseppe… ci hai mai pensato a un bambino?”. Io mi giravo verso di lei, la abbracciavo, le stringevo la faccia contro il mio petto per consolarla o farla tacere, “c’è tempo”, dicevo. Ma quale tempo, quale? Se fossi stato ad ascoltarla, adesso Tiziana non sarebbe sola. E anch’io, chissà, magari potrei dare un senso a tutto questo, alle ore che vanno avanti, al sole che al mattino illumina i fornelli e oggi è tramontato sul poster del Napoli, proprio sulla faccia di Hamsik.
No, non glielo posso chiedere a Tiziana. Sarò pure un delinquente, un uomo da quattro soldi, ma certe cose le capisco anch’io: questo non è amore. Lo sapevamo tutti e due. E poi… non ci riuscivo proprio a stare… non potevo sopportare il pensiero che all’improvviso lei sparisse. Che il giorno del colloquio io scendessi giù nel parlatorio e non mi trovassi davanti nessuno. Oppure che all’improvviso, proprio prima di andarsene, lei si mettesse a piangere, passasse la mano contro la lastra trasparente e mi dicesse: “Amo’, perdonami, perdonami, io ti amo, ma…”, e poi sparisse dietro la porta di metallo. Voi che state fuori non potete capire, ma chi sta qui dentro ha bisogno almeno di certezze. Meglio il male, il dolore, del dubbio. Così il mese scorso una mattina ho preso un pezzo di carta e gliel’ho scritto, così, di getto, senza pensarci: “Tiziana, non venire mai più. Addio”. Una riga. Fine. Sei un miserabile, direte voi, e forse avete ragione. E pensare che ci avrei potuto riempire mille fogli con i nostri ricordi, con le frasi che ho immaginato di dirle. No, non le ho detto nemmeno ‘ti amo’, ‘grazie’. Non l’ho chiamata con quel nome che usavo sempre quando eravamo soli… questo non ve lo dirò, è una cosa tra me e lei… ma l’ho fatto apposta: volevo che mi odiasse. Volevo che non avesse rimorsi e mi dimenticasse per sempre.
Chissà, forse un giorno se tornerò al mio paese ci incontreremo di nuovo, anche questo ho immaginato, lei magari stringerà per mano un bambino, avrà i capelli belli ordinati dalla parrucchiari, tinti per coprire i ciuffi grigi, avrà addosso uno di quei vestiti che si comprano in città che le strizzerà tutto il corpo ormai pesante. Ma vedendomi si tirerà su tutta, si metterà a posto sulla spalla la cinghia della borsa, cercherà di camminare dritta sui tacchi troppo sottili. “Ciao”, “Come stai?”, “Bene e tu?”, “Sono tornato”, “Ciao”, e le si accenderanno gli occhi, ma al posto dell’amore avrà la rabbia, come se fosse colpa mia di tutto. Del tempo, della fatica, del marito che si è presa, della vita che non è andata come doveva. Ma mi va bene così, ci vuole sempre qualcuno a cui dare la colpa. E io sono abituato, ho le spalle larghe, ci vivo giorno e notte con il rancore di essermi bruciato gli anni migliori.
Sapete, a volte vorrei essere come questi ragazzi che vengono dall’Africa. Loro sembrano non pensarci, non mangiarsi le mani… ne ho visto gente, vi giuro, che di notte davvero si divorava le dita, si mordeva la pelle fino a farsi uscire il sangue… Loro sembrano non avere un padre e una madre, una donna, una persona qualsiasi. O forse, chissà, è soltanto perché non li capisco, li ascolto parlare per ore e non c’è verso di afferrare una parola, una sola. Potrebbero raccontare della droga o del sole, della partita di pallone o della loro casa. Ne ho avuto uno in cella, Ifriom, si chiamava così, credo venisse dalla Nigeria. Era un patimento: si alzava la mattina e accendeva la sua maledetta radio, con quelle musiche sempre uguali a tutto volume. “Fastidio?”, mi chiedeva. Certo che mi dava fastidio, ma cosa volete che gli rispondessi? Scuotevo la testa e dentro di me cristavo. Se ne stava lì immobile per ore, a volte mi veniva davanti e mi faceva dei discorsi interminabili, magari in mezzo ci cacciava dentro una parola in italiano, poi alla fine spalancava le braccia e mi faceva uno di quei sorrisi da negro, con la bocca larga larga. Non ho mai capito se diceva davvero qualcosa, se voleva essere capito o se gli importava soltanto sentire un suono.
Razzista, lo so cosa state pensando. No, ma vorrei vedere voi. Pensate cosa vuol dire stare tutto il giorno chiuso in una cella grande come la vostra camera da letto, dove niente è vostro: non il letto, non il tavolo, la sedia, il lavandino, neppure la vostra vita. Immaginate cosa vuol dire dover ascoltare la radio che non capite, la televisione che non volete vedere. Provate a immaginare di dover respirare l’odore di un cibo che detestate, la puzza di un corpo che non conoscete, delle sue scarpe, delle calze, dei vestiti. Ma soprattutto… pensate cosa vuol dire vivere una persona che detesta la vostra presenza quanto voi non sopportate la sua. No, non c’entra niente l’odio. È la vicinanza. Non potete capirmi, hai bisogno degli altri… un bisogno disperato, ma allo stesso tempo provi un fastidio impossibile da sopportare. Detesti come parlano, come si muovono, si vestono, mangiano, respirano. Detesti che esistano. Anche se magari a qualcuno finisci perfino per volergli bene. Adesso io sono nelle cella 209 con Vincenzo, ce la passiamo bene, abbiamo trovato i nostri ritmi: lui si alza prima, si fa da mangiare quando vado in palestra, esce quando torno forse per non sentire la mia puzza dopo la ginnastica. A metà pomeriggio ci facciamo una partita a carte… buttiamo le carte così, senza divertimento, senza voglia di vincere… poi io mi sdraio e leggo mentre lui ascolta il quiz alla televisione. “Quando saremo fuori verrai a trovarmi?”, mi ha chiesto una volta. “Sì”, gli ho detto, ma chissà se è vero. Lo so poi come finisce, ci si ritrova una davanti all’altro senza avere niente da dire, perché quello che ti unisce è soltanto questo schifo. E io lo so… lui non sopporta che io ho trent’anni meno di lui e quando uscirò avrò ancora una vita. Come io a volte lo prenderei a pugni, giuro, soltanto perché non ne posso più di stare giorno e notte con un vecchio. Con quel suo corpo sfatto, quelle tette molli e la pelle piena di macchie. Non chiedetemi perché mi dà tanto sui nervi, immagino che sia perché mi ricorda il tempo. Perché ce l’ha dentro.
Ora capite perché non posso più vedere Tiziana? Ho il terrore di contagiarla. Non te le togli più di dosso queste cose. Perché dopo… dopo niente è più normale. No, non potete capire. Prendete una cosa, una qualunque di quelle che avete intorno. Guardate dalla finestra. Uscite per strada. Un albero, un cane, un gatto, a che cosa avete pensato? No, in prigione non ci sono animali, né piante, nemmeno un filo d’erba. Qui non c’è niente di vivo… non c’è una bestia da maledire quando abbaia, miagola, quando ti si strofina addosso, non c’è una cazzo di foglia, resta tutto fuori dal cancello di metallo. E non entrano nemmeno i colori, a parte l’orlo rosso della gonna della dottoressa che le esce da sotto il camice. Ci sono soltanto le mosche: all’inizio bestemmi, cerchi di scacciarle, ma poi finiscono quasi per farti compagnia quando si infilano tra le sbarre ed entrano qui… per cercare la libertà.
Niente, qui non c’è niente. È tutto vietato, perfino una pianta. Del resto dove lo puoi piantare un seme in carcere? Qui è tutto corridoi, celle, pietra. Lo spazio per l’ora d’aria è un triangolo di asfalto tra il cemento.
Dovreste vederli quelli che vengono scarcerati, io lo so perché la mia finestra dà proprio sul portone. Appena sbucano sul piazzale li riconosci subito perché i vestiti gli stanno tutti storti addosso, perché si mettono la mano davanti agli occhi per la troppa luce e barcollano perché non sono più abituati a non avere intorno un muro a cui appoggiarsi. Si aggrappano ai pali, alle auto. Io l’ho visto davvero quel vecchio del terzo piano, l’ergastolano, che appena uscito dopo trent’anni è andato dritto verso il centro del piazzale, ha mollato per terra la sua sacca e si è messo ad accarezzare un albero. Sì, una di quelle querce spelacchiate, con le foglie nere mangiate dal traffico. Ma lui non la smetteva più di toccarla. Non ci credete, lo so, nemmeno io lo farei se non lo avessi visto. Nemmeno Tiziana mi credeva quando è venuta a trovarmi e io ho provato a raccontarglielo. Perché poi finisce così, lei arriva e prende a parlare del futuro, dei figli, del mondo là fuori, e magari pensa di consolarmi, di darmi un po’ di speranza, ma mi fa soltanto soffrire. “Lasciami in pace”, le ho detto. Aveva preso il treno, aveva fatto mille chilometri, si era messa tutta bella e io l’ho strapazzata, perché non riuscivo a sopportare che avesse compassione di me. Come facevo a spiegarglielo che illudersi fa male, che poi lei se ne torna a casa, può scegliere se andare a destra o a sinistra, se guardare il cielo oppure il soffitto. “Lasciami in pace”, ho urlato, allora è arrivata la guardia e mi ha preso sottobraccio e io mi sono lasciato trascinare via. Non ci possono costringere a essere felici per cinque minuti e poi basti dare tre giri di chiave per lasciare fuori la speranza. Il desiderio. Ma cosa resta poi del desiderio… senza godere, senza poter allungare le dita sotto la gonna, senza poter nemmeno sperare davvero di toccare la pelle. No, io non penso a Tiziana di notte quando mi infilo la mano in mezzo alle gambe, non riesco più neppure a immaginare una donna, perché mi fa soltanto stare peggio. Io non vedo più una faccia, un corpo, una fica, cerco soltanto un po’ di buio. Di silenzio. Mi basta spremere fuori tutto quello che ho dentro e poi sentire i muscoli che si distendono. Ma poi… poi è come se Tiziana mi avesse visto. Ogni volta che me la trovo davanti è come se sapesse che il suo uomo… ma che uomo è uno che si struscia così?… si contorce come una bestia nel suo letto. Ogni volta che mi prende le dita tra le sue, lei lo sa, prima di andarsene se le passa sulla gonna per pulirle. E quando poi uscirò, quando potrò finalmente prenderla tutte le volte che voglio mi resterà nelle mani questa rabbia. Sarò soltanto buono per farle paura, non per proteggerla, per farla godere e di notte non vedrà l’ora che io mi sia liberato, mi sia svuotato di tutto quello che ho dentro.
No, io non mi lascerò guardare così. Cercherò una donna come me, una che non chiede niente. Che non si mette in testa di passare con me una vita, ma le basta mettere insieme la solitudine per una notte, mezz’ora. Non serve nemmeno una casa, va bene anche una pensione come quella che c’è qua accanto alla prigione, quella dove dormono i parenti di noi carcerati. Una pensione che sotto c’è la trattoria per i camionisti e gli operai, che dietro il bancone ci sono le chiavi delle stanze con il numero scritto su un pezzo di cartone, e poi una scala con la moquette consumata che porta alle camere. Basta un comodino senza niente dentro, mobili per appendere i vestiti dove ogni notte sono stati appesi vestiti diversi. Non servono quadri alle pareti, basta un portacenere di quelli con la pubblicità di un liquore, un letto con le lenzuola abbastanza pulite. E fare l’amore anche senza amore, giusto provare un po’ di piacere, di consolazione, magari dopo mettersi seduti, la schiena contro la parete, le braccia intorno alle ginocchia e fumarsi una sigaretta, scambiarsi due parole. Raccontarsi tutto senza la pretesa che sia la verità. Perché in fondo è più vero così, senza tante illusioni, senza promesse che intanto non si possono mantenere. E poi, al massimo, guardare fuori dalla finestra, aspettare che il sole arrivi sul palazzo di fronte, ascoltare le voci dalla strada, e alla fine rivestirsi dandosi già le spalle, perfino darsi un bacio e non pretendere niente: scambiarsi giusto il numero di telefono, magari ci rivedremo, magari no.
Non voglio più illudermi e scoprire una mattina che non era vero. E non voglio più deludere nessuno, perché io voglio camminare a testa alta e non si può vivere sentendosi sempre addosso la colpa come un peso sulle spalle, qui proprio in mezzo alle scapole. Non si può passare la propria esistenza pensando di essere una persona sbagliata. Io non voglio soffrire, non voglio far soffrire nessuno. Voglio, almeno a questo avrò diritto?, essere solo. In fondo c’è più verità dietro queste sbarre che in tutta la vostra esistenza là fuori: noi siamo prigionieri, siamo soli. Lo sappiamo.
E non ho più voglia, non ho la forza di farmi carico di un’altra persona. Non posso più passare le giornate a immaginare che cosa farà quella donna là fuori. Che ore sono adesso? Le dieci, mezzogiorno, che differenza fa? Me la immagino che è appena tornata dal mercato con due sacchi di spesa, che ha sorriso – lei sorride sempre, ma soltanto io so cosa sente davvero – a una persona che ha incontrato davanti alla porta. Poi ha preso l’ascensore, sempre lo stesso… su e giù, su e giù… ha girato le chiavi nella toppa e le si è chiuso il cuore di fronte a quelle stanze vuote, alla giornata che la aspetta. Eppure, ne sono certa, adesso è lì che cucina. Che pulisce. Ma perché pulisce, perché continua a passare lo strofinaccio su quelle mattonelle che intanto saranno sempre grigie, perché passa ancora e ancora il panno sulle mensole? Per chi fa tutto questo? Per lei, per me, per noi. No, non voglio che prepari la stanza, che scelga le lenzuola più belle per una persona che non arriverà mai. Non voglio che faccia più niente per me.
“Lasciami solo”, le ho fatto dire anche da quella ragazza, l’assistente dell’avvocato. Ma lei stava già sistemando la borsa, aveva preso l’impermeabile sulla sedia e si chiudeva i bottoni, uno per uno, fino al colletto, come se dovesse proteggersi da qualcosa. Ha fatto cenno di sì con la testa ed era già fuori dalla porta, stava correndo con le gambette secche e i tacchi che ticchettavano sul pavimento per riprendersi le chiavi di casa, il cellulare e vedere se il fidanzato l’aveva chiamata.
A me basterebbe un po’ di silenzio. Senza questo sbattere di porte, senza i chiavistelli che girano e rigirano, senza le guardie che gridano ordini soltanto per far sentire le loro urla. Zitti. State zitti. No, non ce l’ho neanche loro. Certo, ci sono i bastardi, quelli che ti fanno pesare ogni passo, parola, respiro; ci sono quelli che devono sentire il loro potere, perché appena usciti da questa vita senza scampo, magari hanno un figlio che li disprezza, una casa che gli ricorda quanto sono miserabili con i loro mille euro al mese, con le loro divise con il colletto tutto mangiato. E allora solo qui possono urlare, possono credere di comandare ed essere rispettati. Lo so, lo so, non sono tutti così, li riconosco dagli occhi, non mi serve guardare altro, basta la pupilla. Ma sono costretti a provare disgusto. A compatire, al massimo, noi e loro stessi, perché in fondo siamo tutti qui dentro, siamo tutti prigionieri. E non possiamo, nessuno può davvero, credere che siamo anche persone, perché sennò capisci che è tutto inutile, non c’è redenzione. Non ha senso… la loro vita e la nostra. No, meglio non pensarci, altrimenti impazzisci. Siamo soltanto ispettori, guardie, nomi scritti sul cartello accanto alla porta della cella. Non possiamo anche essere uomini che passano le loro vite a controllarci uno con l’altro, a vietarci di essere felici.
Ha ragione il medico quando mi riceve una volta la settimana in quella stanza che puzza di alcol. Se va bene mi chiede “Come stai?”, “Come ti senti?”, “Ti controllo la pressione”, ma così… tanto per fare il suo dovere, perché non ha niente per curarci, non ha il rimedio per l’unico male che ci fa soffrire tutti. L’unica cosa seria che può fare è aprire il cassetto e tirare fuori le pastiglie, mettermele in mano: “Mi raccomando, una al giorno”. Medicine per dormire… ma quel sonno malato, senza sogni, perché anche quelli fanno male… medicine per non desiderare, per non soffrire, per non vivere. Benzodiazepine in pastiglie, gocce, iniezioni.
“A me non servono, dottore”, ma spalanco la mano e appena giro l’angolo ne ingoio una… due… lasciamo perdere le cerimonie. Grazie anche se tra poco camminerò come un naufrago tra i corridoi, non riuscirò più a mettere insieme le parole che ascolterò, tutto intorno avrà quell’odore dolciastro di marcio… il cibo, le lenzuola, i vestiti che ho addosso, i muri, perfino la mia pelle. Ma almeno ogni cosa mi sembrerà distante, irraggiungibile, come se non potessi toccarla.
“Vieni a vedere la partita?”, ecco questo è Vincenzo. Se ne sta in mezzo al corridoio con l’indice, quello con l’unghia lunga, che gli gratta il cranio. Si guarda intorno come se cercasse qualcosa che ha perso o se stesse dovesse trovare un ordine a questo casino, il carrello della cena, le guardie stanche che smontano e quelle altrettanto incazzate che arrivano, il medico che passa davanti alle celle, promette terapie che non potrà fare mai e porge pastiglie alle mani che si sporgono tra le sbarre, e poi qualcuno che sbraita… c’è sempre un pazzo…
“No, Vince’”, oggi proprio non mi va.
“Dai”, non è uno psicologo, ma ha capito che per me è una giornata delicata, sa che oggi c’è la visita, che dovrebbe venire Tiziana e sono inquieto. Forse stanotte ha sentito che mi mordevo le dita, magari mi è scappata una parola nel sonno. No, della lettera non gli ho detto niente, non l’ho raccontato a nessuno. “Dai”, mi prende per il braccio, ma senza forza, lui con me si sente un po’ come un papà. Non parla molto, non gli viene proprio, ma a volte, per dire, tira fuori una sigaretta, mi prepara un caffé. Una sera che sentiva che mi rigiravo nel letto ha acceso l’accendino, non so perché, come se volesse farmi sapere che era sveglio anche lui. “Ti disturbo?”. Silenzio, ma aveva tenuto acceso l’accendino per qualche secondo, poi aveva infilato di nuovo la testa sotto il cuscino, ma all’improvviso se n’era uscito così: “Giuse’, tu sai che te vojo bene… lo sai?”, forse stava già sognando. Certo che lo so, Vincenzo. Mi vuole bene anche Massimiliano, forse la dottoressa con quei denti così bianchi, il prete perché è il suo lavoro, perfino qualche guardia… non sono cattive, non sono buone, sono persone… quella guardia che tiene il basco fin sopra la fronte e mi porta sempre il giornale anche se non lo leggo. Ma in prigione che altro puoi regalare?
Ma chissà poi cosa significa qui dentro. Fai appena in tempo ad abituarti a una persona… questo vuol dire ‘ti voglio bene’, accettarla… che la trasferiscono in un altro braccio, in un istituto lontano perché noi siamo come pacchi.
“No, grazie Vince’”, oggi voglio stare solo, niente partita di briscola, niente scopa. Mancano appena due ore e poi finalmente mi metterò il cuore in pace. Addio Tiziana. Magari riuscirò perfino a odiarla un po’: “Vedi che non è venuta, è bastata una lettera, non aspettava altro. Vai a farti la tua vita, fatti mettere incinta, trovati uno che ti compri i tuoi vestititi a fiori. Ecco cos’è l’amore”. La odierà giusto il tempo per dimenticare, anche se nemmeno questo è facile se stai rinchiuso. Non hai via di scampo, i pensieri ronzano, ronzano e poi ci appiccicano lì, proprio come i mosconi d’estate.
Ma adesso non mi tormentate, non chiedo tanto, soltanto stare un po’ sdraiato, giusto un’ora, poi vado dal prete per far passare il tempo a me e a lui. Ecco, chiudo gli occhi e raggiungo il mio nascondiglio segreto. Ognuno di noi ne ha uno, un rifugio tutto suo. Non devono esserci persone, però, neanche nelle fantasie. Vincenzo mi ha detto che quando gli prende male allora se ne va nella casetta di pietra dove suo padre lo portava da bambino a prendere le olive. “Ora se l’è presa mio fratello, ha tirato su un recinto!”, si è battuto la mano sul ginocchio, gli hanno messo un cancello perfino davanti al sogno. Ma lui ci va lo stesso, forse scavalca, si siede sul sasso di un muretto… sempre lo stesso… e semplicemente guarda. Respira.
Quando andiamo laggiù dovete in pace. Non potete parlarci, toccarci sennò tutto va in pezzi. Ecco, adesso lo vedo, il sentiero di ghiaia bianco. Lascio la macchina, mi infilo le scarpe da montagna e comincio a camminare tra i larici. È l’unico profumo che riesco a sentire ancora, perfino qui dentro. Scendo giù fino al prato dove c’è una casa di legno, metto le mani sotto la fontana e bevo. A volte mi capita di incontrare degli animali, qualche capriolo, magari un cervo. Se qualcosa mi fa paura, come oggi, dietro le siepi di rododendro sento il rumore di qualche grossa bestia… un lupo, forse l’orso. Allora resto immobile, mi faccio piccolo piccolo, prendo un legno e lo stringo forte. La resina mi resta fra le dita. Sopra di me la luce passa tra i rami, è tutta piena di insetti.
Vorrei che fosse inverno… ma oggi fa troppo caldo anche per la fantasia, vorrei essere a dicembre quando c’è quel freddo che arriva perfino qui nella cella, e io cammino con la neve fino alle ginocchia. Cammino senza vedere il sentiero, seguo soltanto la discesa, cerco il segno che ho fatto con il coltellino su una corteccia un giorno da ragazzo con mio cugino oppure il cerchio rosso che ho disegnato su un sasso l’ultima volta che sono passato qui in sogno. Forse è l’alba o il tramonto, ma la luce resta sempre così un po’ sospesa. Non c’è un rumore a parte quello dei miei passi o della neve che cade da un albero e diventa polvere, mi entra nel collo… qui nella tuta azzurra dell’Italia che metto sempre in cella. Cammino, a volte cado, sento il respiro pieno di affanno, la pelle paonazza, i capelli duri di gelo. Vado avanti verso quel rumore che diventa sempre più forte, che muove l’aria. Lo so, è là dietro, ancora una curva e ci arriverò. Ma poi il sentiero gira ancora, e ancora, devo passare un ponte di legno, la roccia è così vicina… allungo la mano, tocco il muro della stanza… che posso sfiorarla. Non c’è niente, non c’è nessuno, soltanto cornacchie nere. Non ci sono nemmeno colori tranne gli aghi gialli sulla terra. Ormai è qui, sento le folate di freddo che vengono su dal buio, mi chiudo la giacca. Mancano pochi passi, ma mi fermo. Non ci andrò, non arriverò alla cascata neanche questa volta. Basta così… non bisogna realizzare i sogni, fa male… ma se mai uscirò davvero, se dopo l’appello, la Cassazione, non ci sarà ancora un appello, e un altro processo, io ci andrò di nuovo. Fosse l’unica cosa che farò nella vita, tornerò laggiù. Cercherò i tagli sulle cortecce, i segni rossi sulle pietre.
Non sarò felice, non è più possibile, ma sarò io. Lo stesso che ero da ragazzo, che sono qui adesso, che tornerò a essere. Tornerò lassù e forse sarà bello come oggi che lo vedo dal mio letto; non so cosa se urlerò qualcosa per sentire l’eco, se getterò un sasso nell’acqua che ribolle in fondo al buco come ho cacciato via tutti questi anni, ma finalmente, forse, mi vorrò un po’ bene.
“Giuseppe?”.
“Sì”.
“Sei dalla tua cascata?”, chissà quando gliel’ho raccontato.
“Sì, padre”, apro gli occhi, me lo vedo sopra di me, la croce di legno che mi pende sulla faccia. Mi piace perché non sembra un prete, ha le mani piene di vene, le caviglie spesse con le calze sempre abbassate.
“Vuoi che torni dopo?”.
“Resti qui”.
“Dimmi cosa c’è”.
“Niente”.
Sta appoggiato alle sbarre della porta. Sfiora con lo sguardo il poster con le solite donne con le tette fuori che abbiamo messo lì soltanto per ricordare che siamo uomini. Le osserva e non storce il naso, non fa finta che gli piacciano per sembrare uno di noi. Guarda la mia stanza, le pentole che Vincenzo mette una sopra l’altra con una precisione assoluta. Poi le pantofole per terra, la gruccia dei vestiti appesa alla doccia, il mazzo di carte sul tavolo, la busta del caffé. Non c’è niente che dica chi sono, chi ero. Potrebbe starci chiunque. Lo so, padre, non è facile trovare un appiglio per attaccare discorso, è dura perfino per lei.
“Resti qui”, mi sistemo sul letto. Si siede sullo sgabello rosso, oscilla a destra e a sinistra per vedere se sta su.
“Posso farmi un caffé?”, dice Sandro, si chiama così, ma per me è soltanto il prete.
Faccio per alzarmi: “Aspetti…”.
“No, lascia stare”, comincia ad armeggiare con la moka, “ne vuoi anche tu?”.
“No, grazie”.
La mette sul fornello e mi dà le spalle: “A dire la verità…”, il cucchiaino resta sospeso, “non sono venuto per te oggi”, si piega in avanti, giocherella con la croce, “Non soltanto. È che ci sono giorni che… ho bisogno di sentire di servire a qualcuno”.
Chissà se lo pensa davvero oppure se vuole soltanto convincermi a parlare. Non mi interessa, non adesso, tra un’ora mi chiameranno giù. “A me basta che lei stia qui”.
“Ci sono”, senza volere solleva la tazzina e la guarda controluce per vedere se è pulita, poi si versa il caffé, “Se vuoi ti leggo qualcosa”.
“Il solito Vangelo?”.
“Quello che vuoi”, si gratta un polpaccio.
“No”, sono stato brusco, non volevo, ma forse l’ho fatto apposta per vedere se basta così poco per farlo andare via.
“Me ne sto qui, se vuoi mi racconti, sennò non importa”.
Chiudo gli occhi, magari sta guardando l’orologio o forse ha appoggiato la testa all’indietro contro il muro e osserva le macchie di umido sul soffitto. Ascolto il suo respiro. Sono sicuro che prega, se i preti poi lo fanno davvero, sta chiedendo qualcosa per me. A me basta che non se ne vada.
“Vuole che mi confessi?”, almeno così farei passare un po’ di tempo.
“Dimmi tu”, sento che sorride.
“Io non ci credo”.
“Per Dio non fa differenza”, non è uno di quei preti che cercano di convertirti.
“E poi chiuso qui dentro non potrei fare tanti peccati, neanche se volessi”.
“A me basta che ti liberi del tuo peso”, apro gli occhi, mi sta guardando, un punto imprecisato, il torace forse.
“Vorrei poterglielo raccontare”, mi alzo sul letto, sento che sto per parlare, mi sta salendo lungo la gola, “Ma non ha senso. Non posso scaricarglielo addosso, devo tenermelo io”.
Gira il cucchiaino nella tazzina: “Sono qui per questo, per prendermi il tuo peso”.
Vorrei fare qualcosa, mi basterebbe toccarlo, non so perché. Sono certo che lo capisce, ne ha visti troppi così, ma non può, tocca a me fare il passo.
“No, padre, no”, dico, “non può fare niente per me”, ma spero tanto che non se ne vada.
Si affaccia l’ispettore: “Padre, c’è Gargiulo che chiede di lei”.
“Gli dica che arrivo”, fa un gesto con la mano, come per allontanare una mosca.
“C’è qualche problema qui?”, domanda la guardia, ha paura che pianti un casino.
“Tutto a posto. Arrivo tra dieci minuti”.
Perché resta qui? Forse perché è il suo dovere, magari è soltanto stanco, fa caldo anche per lui. Chissà se per lui fa differenza… intendo dire che sia io o un altro. Se tra un mese o un anno si ricorderà il mio nome o sarò soltanto un volto tra mille. Se gli ricorderò soltanto la sofferenza. È questo che non voglio… che sia il prete, il dottore, Tiziana, quando mi guardano gli faccio soltanto venire in mente il dolore. Lasciatemi in pace, non voglio rovinare la vita di nessuno.
“Paternò, Paternò, Paternò”, chissà perché lo ripetono sempre, come se non fosse neanche più un nome, ma un insulto.
Guardo il prete, allunga il braccio e mi aiuta ad alzarmi.
“Sono qui”, ecco, è arrivato il momento. Neanche a questo posso sfuggire.
“Paternò”, di nuovo, sempre più forte, più acuto, “C’è una visita per te”.
“Chi è?”.
“E cosa ne so? C’è una persona per te nel parlatorio”.
Non riesco più a decidere niente nella mia vita. Adesso c’è questa guardia, che conosce a malapena il mio nome, che mi sta portando giù per le scale, che mi mette una mano sulla schiena per costringermi ad andare avanti. E non le importa niente di me, non sa nemmeno che la mia vita sta per cambiare. Per sempre.
Prima scala, sei gradini a destra, sei a sinistra. “Detenuto Paternò, colloquio”, tre giri di chiave, la porta si apre. Seconda scala, sei gradini a destra, sei a sinistra. “Detenuto Paternò, colloquio”, tre giri di chiave, la porta si apre, arriva un’altra guardia, non mi guarda neanche in faccia, mi tiene sottobraccio come si fa con un vecchio. Un paralitico.
Un corridoio, l’atrio con il crocifisso appeso al soffitto, l’infermiere che distribuisce il metadone, un detenuto che pulisce per terra. Lasciatemi andare, voglio scappare… in cella. Non vi chiedo altro, almeno questo me lo dovete permettere.
“Detenuto Paternò, colloquio”. Lo so, lo so. La porta si apre, chiudo gli occhi. Inciampo in qualcosa, forse una sedia, forse uno di quegli scaffali. No, io non guarderò, intanto qui è tutto grigio, tutto di metallo.
“Eccolo”, dice la guardia. Mi preme sulla spalle, mi fa sedere. È qui davanti a me, ma chi? Non lo voglio sapere.
“Paternò”, è l’ispettore che mi parla.
“Riportatemi su”.
Apro gli occhi. Tiziana, ovviamente. Mi guarda, forse vorrebbe piangere, sorridere, allungare la mano, ma non muove un muscolo.
“Perché sei venuta?”. Lei non apre bocca. “Che cosa ci fai qui?”. La guardia sporge avanti la testa, ma almeno questo non può ordinarmelo, non può decidere cosa devo dire, cosa devo provare. “Ti avevo detto di non venire. Non ti voglio più vedere, lo hai capito? Non sono libero nemmeno di lasciarti?”. Lei tace, sta facendo uno sforzo immenso, riesce perfino a non tormentarsi le dita come fa sempre. Tiene le mani appoggiate sul tavolo, si aggrappa alla borsetta. “Non posso più decidere niente nella mia vita. Nemmeno di restare solo, nemmeno di essere infelice. Senti… di catene, manette, sbarre io ne ho già abbastanza. Non ti ci mettere anche tu a legarmi…”. Ha addosso quel vestito azzurro con la cintura nera e la fibbia d’oro, lo stesso che aveva la prima volta che è salita sulla mia auto. Chissà se lo ha fatto apposta, se è un modo per dirmi addio. Sì, deve essere così, vuole essere lei a decidere, di sicuro ha già un altro, forse è sempre stato così, ma continuava a venire soltanto per non darmi un dolore, per non far vedere che mi mollava appena entravo in prigione.
“È per questo che sei venuta, per dirmi addio?”. Le sue labbra restano strette strette, senza nemmeno quel buchino che lascia vedere i denti. Scommetto che sono giorni, settimane che preparava questa scena: “Sei venuta per avere la coscienza a posto? Va bene, hai fatto il tuo dovere, hai fatto tutto quello che potevi. Ci hai provato, brava. Adesso vattene, vattene, vattene”. Mi alzo, mi agito tutto: “Vuoi un addio, che ti dia un bacio, che ti abbracci un’ultima volta? Vieni”, mi alzo, faccio per sporgermi oltre la lastra trasparente, allungo le braccia, ma non riesco a raggiungerla, la guardia mi trattiene.
“Paternò, smettila! Lasciala in pace”, e mi spinge di nuovo sullo sedia.
“Tiziana”, ecco, non volevo dirlo, non volevo chiamarla per nome, ho paura di perdere il controllo, “Senti”, cerco di essere calmo, “devo restare qui quindici anni. Hai capito?”, spalanco le mani, glieli mostro: uno, due, tre… quindici, “Non posso chiederti di aspettarmi, non è vita”. Finalmente vedo un riflesso nei suoi occhi, fa un respiro profondo come se stesse per parlare, ma niente. “Hai paura di restare sola, è questo? Vedrai… sei… tu sei…”, bella, ma riesco a non dirlo, “troverai qualcuno, anche migliore di me. Uno che non truffa, che non spaccia. Ascoltami, ti prego: non posso offrirti niente, non posso farti felice. Non darmi anche quest’altro peso”. Vorrei… sputare, vomitare fuori tutto. “Ma perché sei venuta? Perché vuoi che ti faccia male? Perché dobbiamo rovinare tutto? Ti prego, non farmi sentire ancora più cattivo. Lo dico per te… e anche per me. Io non ce la faccio più, lo capisci?, non posso stare qui e vivere con la paura che un giorno tu te ne vada. Lasciami almeno stare solo, così non avrò più niente da temere, non ne posso più di avere paura. Aiutami. Fallo per me, te lo chiedo per me”. Do un pugno sul tavolo, “Ti prego, parla, dimmi qualcosa. Mandami affanculo, dimmi che mi odi”.
Mi giro verso la guardia, la foto del Presidente della Repubblica appesa al muro, la porta chiusa a chiave, “Mi porti via, non potete impormi tutto”. Mi volto, ma è sempre lì, mi fissa: “Che cosa ti sei messa in testa, di impormi anche l’amore? Dimmi, cos’è… senza vedersi, toccarsi, parlare, senza… dimmi, cos’è questo benedetto amore?”.
Si piega, fa per prendere qualcosa: “Non lo so, Giuse’. L’altra mattina mi ero messa in testa di non venire, te lo giuro. Non era rabbia, non so se desideravo vederti o se mi faceva più paura trovarmi qui con te. Non sapevo niente, non avevo la forza di alzarmi dal divano. Riuscivo soltanto a guardare dalla finestra e non vedevo niente. Non sapevo se fuori c’era il sole o se pioveva, se davanti c’era un palazzo o un albero”. Alza la mano, se la appoggia all’orecchio: “È suonato il telefono mille volte, ma non riuscivo a rispondere, non mi venivano proprio le parole. Mi tenevo la testa tra le mani… si fa così quando si soffre, vero?… e pensavo a mia nonna che in quei casi prendeva il rosario e cominciava a sgranarlo tra l’indice e il pollice. Ma che senso ha pregare? Intanto se lui esiste lo sa già che ho bisogno di aiuto anche senza l’Ave Maria, il Padre Nostro e comunque non sapevo cosa chiedergli… che mi desse la forza di venire o di restare a casa? Stavo lì… non dovrei dirlo, ma avrei voluto… no, non morire… finire, smettere di respirare, ecco. Sparire, perché intanto non capisco più a cosa servo se per farti stare bene me ne devo andare. A un certo punto mi sono ricordata quello che mi diceva mio papà: “Quando hai troppi pensieri per la testa, usa le mani”. Lui andava nell’orto e per ore lo sentivi che dava colpi, alla terra, alla legna, a qualsiasi cosa. Picchiava, picchiava, picchiava e poi tornava su paonazzo. Allora ho aperto il cesto di vimini che tengo accanto alla poltrona. Ho tirato fuori un maglione che volevo farti… era una sorpresa per quando… sì, per il giorno che ci sposavamo… ma ormai te l’ho detto. Non so se a te sarebbe piaciuto, era una di quelle cose, come si dice, melange, che intrecci un filo rosso e uno blu e viene fuori un altro colore. L’ho preso da un giornale di cucito, perché io non sono brava con queste cose. Non chiedermi se era bello, ma a me piaceva e comunque te l’avevo fatto io. Vado avanti da più di un anno… sai. All’inizio ero lenta, lentissima. Facevo e disfacevo. Quando tu la sera uscivi con i tuoi amici e mi toccava restare a casa me ne stavo lì a tessere. Poi quando ti hanno portato via, proprio quella sera che all’improvviso non potevo più vederti e chiamarti, per non pensare mi sono messa lì con i miei aghi. E le sere che ti cercavo, quelle che mi prendeva la disperazione. Alla fine quando rimettevo a posto gli aghi lo prendevo in mano, lo tenevo su contro la luce della lampada, ed ero tutta orgogliosa, mi sembrava che comunque anche quel giorno non era stato inutile. Ne facevo un centimetro e ne toglievo due. Ho cominciato a pensare che quel lavoro non finiva più, ma in fondo non mi importava o forse era quello il senso. Mentre i ferri andavano avanti e indietro mi sembrava che tu eri lì con me e facevamo qualcosa insieme per il futuro che doveva venire. E se non veniva quel giorno… andava bene lo stesso. Anche la mattina che mi è arrivata la tua lettera… l’ho richiusa, l’ho infilata nell’armadio, vicino alla radio, e mi sono messa lì con gli aghi. Ma l’altra mattina… per la prima volta quel futuro neanche io lo vedevo più. Così ho preso in mano la lana… non sono riuscita neanche ad arrivare alle maniche… e ho pensato: tanto vale che lo disfi, intanto non glielo darò mai più. Almeno servirà a qualcosa, userò il rosso per fare un maglione a mia nipote e il blu… non so, magari per una presina per la cucina. Non andranno persi. Anche se, sì… mi piangeva il cuore, perché per ogni punto mi sembrava di ricordare quando lo avevo fatto, la passione che ci avevo messo. Sei sicura?, mi sono detta, perché ormai parlo da sola, mica sei solo tu a farlo. Sì, sono sicura, se è finita davvero lo devo vedere con i miei occhi. Voglio essere io a distruggere tutto. Noi donne siamo fatte così, abbiamo bisogno di segni, non ci bastano le parole come a voi, non facciamo grandi discorsi. Così ho acceso la luce per fare un lavoro preciso, ho preso gli aghi e ho cominciato a infilarli tra i fili, perché il giornale dice che prima bisogna separarli e poi tagliarli. Uno per uno. ‘Disfare è una fatica più grande che costruire’, è scritto così. E non so quanto tempo è passato, a un certo punto ho alzato la testa e fuori c’era già buio, ma io non ero riuscita a disfare neanche un centimetro. Non puoi capire, quando metti insieme due fili non c’è più verso di riuscire a dividerli, sono diventati una cosa sola. E io ero così stanca che non sapevo più cosa volevo, se dovevo restare a casa o prendere quel treno, ma guardando quella trama ho capito. Arrivata a un certo punto non ti resta che buttare via tutto oppure andare avanti, devi finire in qualche modo. Te l’ho portato, ci sono anche gli aghi. Vedi tu se riesci se riesci a dividere i fili, il rosso dal blu, io non ne sono capace”.