Macerie. Polvere che entrava nel respiro. Il cielo vuoto sopra Certosa.
Erano le 12 del 14 agosto 2018 quando sono arrivato sotto il Morandi. Ciò che ne restava.
La prima persona che ricordo è Davide Capello, il vigile del fuoco miracolosamente sopravvissuto nell’auto incastrata nel ponte. Mi era venuto incontro coperto di polvere. Vedevo solo i suoi occhi bianchissimi, spalancati. “Sono vivo”, ripeteva, come se lo dicesse a se stesso. Come se volesse esserne certo.
E ricordo le voci che uscivano da sotto le macerie, dalle grotte sotto le rovine. Erano soccorritori o sopravvissuti intrappolati nelle auto? Non lo sapevamo. Non sapevamo niente.
Pioveva, i fulmini ci cadevano accanto, ma non sentivamo niente. Guardavamo tutti le macerie immense con un senso di impotenza.
E ricordo un’auto, una in particolare, schiacciata sotto una trave di cemento spessa due metri. Dal finestrino potevo vedere gli asciugamani colorati pronti per essere distesi su una spiaggia. Allora ho capito, l’ho proprio sentito, che lì sotto c’erano uomini e donne. Mezz’ora prima erano vivi come me.
Ho tenuto in mano il mio taccuino di cronista e mi sono sentito in colpa di essere vivo.
Quarantatrè morti. Troppi perché si possa immaginare di ognuno il volto, gli occhi, le mani. La vita.
Così sono diventati ‘le vittime del Morandi’ .
Ma per qualcuno oggi come allora sono madri, padri, sorelle, fratelli, figli, nipoti.
Sono un vuoto che rimane tra le stanze di casa.
Sono nomi da chiamare per tenere vivo il ricordo.
Oggi alle 12 per noi finirà la cerimonia, ma per le famiglie delle vittime il pensiero non si spegne.