Con l’ordinanza congiunta del Ministero della Salute e del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali (vedi su Gazzetta ufficiale ) vengono individuati una serie di Comuni in provincia di Genova, Savona e nell’alessandrino, che costituiscono la cosiddetta “zona rossa” per la peste suina africana. Si tratta di una sorta di cintura che circonda le zone in cui sono state rinvenute carcasse di cinghiale infette.
Di fatto l’ordinanza vieta all’interno del territorio dei comuni oggetto della stessa, qualsiasi tipo di attività all’aperto: in primis l’attività venatoria, ma anche il trekking, la raccolta di funghi, la circolazione con mountain bike o moto da cross. Il tutto per la durata di sei mesi a decorrere dalla pubblicazione in Gazzetta, dunque dal 14 gennaio 2022.
La Regione Liguria ha recepito le disposizioni ed emesso l’ordinanza n. 4/2022 e stabilito, oltre a quanto sopra indicato, l’abbattimento immediato dei suini detenuti in tutti gli allevamenti familiari nonché la macellazione entro 30 giorni di quelli detenuti in allevamenti commerciali e il non ripopolamento per i successivi sei mesi.
Fermo restando che le ordinanze vanno rispettate, osservando i fatti, ci chiediamo:
Dal momento che il virus non è pericoloso per l’uomo, fatta salva la correttezza del provvedimento che interrompe la caccia, hanno senso i divieti per le escursioni?
Il rischio che l’epidemia dilaghi e colpisca gli allevamenti intensivi, quelli all’interno dei quali la propagazione dei virus può avvenire rapidamente, viste le condizioni di sovraffollamento (tra l’altro non presenti in Liguria), va fatto scontare ai piccoli allevatori locali che crescono i propri animali in modo etico e sostenibile?
Insieme ai pipistrelli, i suini sono tra le specie grazie alle quali i virus compiono spesso i salti di specie: non sarebbe quindi opportuno ripensare alla caccia e al sistema degli allevamenti in maniera sistemica per prevenire nuove possibili pandemie?
Se è vero che, come pare appurato, il virus della peste suina è entrato in Italia attraverso l’importazione illegale di carni dall’est Europa, non sarebbe il caso di rivedere il commercio della carne cambiando le regole?
Possono davvero restrizioni locali, contenere la diffusione di un virus così pericoloso, fermo restando il sovraffollamento di cinghiali in libera circolazione e la totale indifferenza delle istituzioni pubbliche verso questo fenomeno?
Per capire meglio, abbiamo fatto alcune domande a Mauro Belardi, biologo e presidente di Eliante, una cooperativa sociale no-profit, attiva da 18 anni nel campo della sostenibilità ambientale con progetti attivi in 9 regioni italiane e in 7 Paesi europei.
Cos’è la peste suina, come è arrivata da noi e perché si è diffusa?
L’origine, come dice il nome stesso è africana, da noi è arrivata dall’Europa dell’est. Il motivo per cui si è diffusa è la caccia al cinghiale: i cinghiali sono gli unici vettori, sono presenti in numero incontrollato sul territorio perché vengono ogni anno rilasciati capi nei territori per alimentare la caccia. Sulle Alpi in zone in cui non sono mai stati presenti, li abbiamo trovati e proliferano nonostante la presenza, in crescita, del lupo che, tuttavia, non riesce a mantenere in equilibrio la popolazione suina. A significare che c’è un intervento umano ad alterare tale equilibrio.
L’epidemia è destinata a fermarsi, le misure prese con le ordinanze in atto in Liguria e nell’alessandrino sono sufficienti?
Purtroppo, dato il numero elevatissimo di cinghiali, la loro prolificità e libertà di spostamento, l’epidemia arriverà ovunque e le misure attuali sono solo dei palliativi inutili. Dal momento che non ha ripercussioni sulla salute umana, la misura che vieta lo spostamento nei boschi alle persone non ha senso come misura contenitiva per arginare l’epidemia. Il contagio si può trasmettere in tre modi: attraverso l’allevamento brado di maiali, attraverso la pratica illegale (ma diffusissima) di dare mangimi derivanti da scarti alimentari di origine animale negli allevamenti suini, attraverso l’uomo (scarpe, indumenti venuti a contatto). È evidente che l’ultima causa non può essere considerata quella principale, né essere risolutivo fermare le attività umane nei boschi (fatta salva la caccia che è giusto fermare).
Come fare allora a contenere l’epidemia?
L’unico modo per far sì che i grandi allevamenti non vengano contaminati è istituire misure di sicurezza per accedere: disinfezione, utilizzo di abiti protettivi, creare una sorta di cordone di sicurezza che sanifichi e verifichi ogni ingresso. Nel breve, una misura che sarebbe assolutamente necessaria è la chiusura della caccia, non solo nelle zone colpite, ma su tutto il territorio nazionale, fino alla risoluzione del problema. Sul medio e lungo termine bisogna evidentemente intervenire sulla popolazione dei cinghiali, si tratta infatti di una malattia da sovrappopolamento.
Se la causa è la diffusione della caccia e la gestione della medesima totalmente affidata ai cacciatori stessi, cosa bisognerebbe fare in futuro?
Evidentemente la risoluzione del problema non può essere affidata a chi ne è la causa, ovvero ai cacciatori. Dopo l’epidemia ci saranno meno capi in circolazione (la natura è abituata a fare il suo corso, nonostante noi, ndr) e lì sarà necessario prendere provvedimenti seri per rivedere il sistema caccia, la cui gestione dovrà evidentemente essere più pubblica e meno lasciata in mano al privato, ai cacciatori stessi: chi è la causa di un problema non può esserne la cura. La popolazione dei cinghiali fuori controllo è la prova che i cacciatori non risolvono, ma peggiorano il problema.
Abbiamo menzionato i lupi, possiamo considerarli un contributo nella lotta a questo tipo di epidemia?
Si, il lupo non solo preda gli individui più deboli, dunque presumibilmente malati, di un branco, ma è anche necrofago e quindi si nutre delle carcasse diminuendone la permanenza al suolo: considerato che il virus può sopravvivere nei resti di un cinghiale morto anche tre mesi, il lupo può quindi contribuire a limitare la diffusione. Inoltre i lupi non veicolano il virus.
Ecco, infine, alcuni dati sugli allevamenti di suini in Italia:
La Lombardia è la prima regione per numero di suini allevati di tutta Italia. Qui vivono quasi 4,4 milioni di maiali — ovvero il 50% della produzione nazionale — ma il numero di allevamenti rappresenta solamente il 9% sul totale, e questo perché l’allevamento suinicolo in Lombardia è a carattere fortemente intensivo. Tant’è vero che la media di animali presenti in ogni allevamento è di 1629.
Al secondo posto per numero di capi dopo la Lombardia si colloca il Piemonte con 1,3 milioni di suini (1 ogni 3 abitanti), seguito subito dall’Emilia Romagna con 1,1 milioni (1 ogni 4 abitanti) e infine dal Veneto con 686 mila capi (1 ogni 7). Ma la stragrande maggioranza degli allevamenti si concentra in una zona molto ristretta che tocca le province di Mantova, Brescia, Reggio Emilia e Modena — si pensi che la provincia di Brescia conta più maiali che abitanti.
Alla luce di quanto emerso, pensiamo che il problema della peste suina non possa essere affrontato con singole iniziative su base locale, del tutto inutili e penalizzanti per i cittadini di fatto sottoposti a un discutibile “lockdown dei boschi” così come per gli allevatori locali, che si vedranno azzerata l’attività che consente il loro sostentamento, ma vada inquadrato in una visione più ampia, che prenda in esame le storture della gestione attuale dell’attività venatoria sul nostro territorio, di fatto delegata a una lobby molto potente e quasi intoccabile, che hanno portato alla diffusione incontrollata dei cinghiali sul territorio nazionale e che riconosca la necessità di rivedere l’allevamento in Italia, rimettendo la salute e il benessere degli animali al centro, con evidenti benefici anche per la salute e la vita dei cittadini.