UN MEDICO PER L'ALTA VAL TREBBIA

Basterebbero i 120mila euro dati a Elisabetta Canalis per sessanta secondi di spot e si pagherebbe un medico fisso per l’Alta Val Trebbia per almeno tre anni. Invece sei comuni e oltre 1.500 abitanti oggi rischiano di restare senza un’assistenza sanitaria degna di questo nome.
Non riesco a non pensarci mentre salgo per i tornanti che portano a Fontanigorda. La Liguria è anche questa, non soltanto la costa, le spiagge, le città. Noi liguri siamo fatti di mare, certo, ma nei nostri occhi ci sono anche questi boschi di castagni, le case di pietra, la terra scura scura. La neve, questa che sa anche di mare. E i paesi dove in questi giorni d’inverno vedi ormai tante finestre chiuse e soltanto tre o quattro sbuffi di fumo bianco che escono dai camini.
I colori della Liguria sono quelli azzurri della Riviera, ma anche il verde delle alture. Il nostro cammino è abituato a seguire le creuze de ma come  i sentieri di pietre grandi che superano i crinali e portano alla pianura. Il cibo che ha formato il nostro gusto viene dalle terrazze sul mare come dai seccherecci nei boschi. Magari anche certe parole le abbiamo trovate tra i monti, la neve che ‘deslengue’ si scioglie, si fa acqua; come vedi in questi giorni nei canali di scolo e come cantava Fabrizio De André nella sua Cumba.
E forse viene da qui anche il nostro istinto che, come diceva il sanremese Italo Calvino, ci porta a viaggiare. Nasce proprio dalla spinta dei monti che sentiamo contro le spalle.

Sono venuto qui in Alta Val Trebbia per parlare con la gente che da anni chiede un medico. Ma se mi fermo un attimo lungo la strada – qualcuno ha disseminato il percorso di panchine – e guardo, allora penso che il problema è molto più profondo: ci siamo dimenticati l’Entroterra. Intanto ci vive poca gente, ci sono poche persone che votano. E trovare una soluzione richiederebbe idee, progetti seri.
Che si arrangino loro, gli abitanti delle valli.
Qui a Fontanigorda il Comune ha un campanello come quello di una casa qualunque. Suoni e ti risponde il sindaco, Bruno Franceschi, un avvocato pacato, ma appassionato. Ti fa salire e prende a raccontare, insieme con Margherita Asquasciati, ex sindaco e oggi assessore. Una pasionaria che non ti dà pace finché non l’ascolti davvero. Qui, come in altri cinque comuni vicini, fino al 2017 c’era un medico fisso. Poi è andato in pensione e sono cominciati i guai: la Asl ha lanciato quattro bandi, ma non si è trovato nessuno. Il perché è facile da capire: un medico qui guadagna circa la metà di un collega di città perché il compenso è calcolato in base agli assistiti e qui sono sempre meno. E la vita è dura: ci sono millecinquecento persone da assistere su una superficie di cento chilometri quadrati. Devi dividerti tra sei comuni, rischi di dover pagare sei ambulatori – il riscaldamento, la luce, magari un assistente – e per andare a visitare i malati ti tocca fare decine di chilometri al giorno.
Eppure un giovane dottore si era trovato. Uno specializzando che in pochi anni si è fatto amare da tutti, che non dice mai di no e risponde sempre al telefono. Un trentenne che è andato avanti a botte di incarichi provvisori, facendo lo slalom tra una burocrazia che invece di aiutarlo gli metteva paletti ovunque: non può fare ricette elettroniche, ma solo cartacee. Non può accettare nuovi mutuati, perché è provvisorio, e così ha visto i suoi assistiti scendere a poco più di cinquecento. Eppure lui è andato avanti, lo trovavi sempre in ambulatorio, lo incrociavi sulla sua auto che giorno e notte saliva per le strade piene di curve, magari coperte di neve. Anche nel periodo del Covid: mascherina, guanti, e via. Non si è mai tirato indietro. “Voglio restare, qui sto bene”, ha sempre detto.
Ma pochi giorni fa è arrivata la notizia: il contratto è scaduto. Si cambia medico fino a giugno e poi chi vivrà vedrà.
“Perderlo ci brucia”, dicono Bruno e Margherita. “Non possiamo lasciarlo andare”, ripete Chiara del Comitato degli abitanti che in poche ore ha raccolto mille firme e si è riunito in paese in un’accalorata assemblea. “Dobbiamo trovare un modo per tenerlo”, picchia la mano sul tavolo Claudio, un pensionato che con la moglie guida l’ambulanza su e giù per la valle. Da vent’anni. Passano le giornate con il telefono e la radio sempre accesi, a volte con il camice addosso. Appena li chiamano mollano tutto, la pentola sul fuoco, la vanga appoggiata al muro, e partono.
Già, sembra tutto così assurdo: il medico c’è, gli abitanti gli sono affezionati e si fidano di lui. E ci sarebbero anche i soldi, non soltanto quelli della Canalis: nel dicembre 2020 la Lista Sansa ha fatto approvare un ordine del giorno che stanziava 400mila euro proprio per sostenere i medici dell’Entroterra. Una cifra che basterebbe per l’Alta Val Trebbia, ma anche per altre valli. Ma dopo un anno siamo andati a controllare. Gli uffici di Alisa e della Asl non sapevano neanche che fine avesse fatto quel denaro. Dimenticato. Inutilizzato. Rischiava di andare perso. Così nel dicembre 2021 siamo riusciti a far votare che il finanziamento venisse mantenuto.
Basterebbe che quella somma fosse utilizzata per aiutare il medico a pagare l’affitto degli ambulatori, le utenze, magari per offrirgli una casa dove abitare. Potrebbe anche garantirgli un trattamento economico più adeguato.
Sì, i soldi ci sono. Ma in un cassetto. Ci si sono messe di mezzo la politica e la burocrazia e tutto si è bloccato. L’Entroterra sembra non interessare a nessuno.

Certo, la gente della Val Trebbia ha radici tenaci, come quelle di certi alberi appesi sui crinali del monte Alfeo. Ma non puoi chiedere alle persone anziane (qui oltre il 60% della popolazione ha più di 65 anni) di abitare in un paese dove per farsi visitare da un medico devi andare – solo un giorno alla settimana – nel paese a dieci chilometri di distanza. E se stai male? Se non hai la macchina?
È impossibile.
Non puoi chiedere alle giovani famiglie – che ci sono, per fortuna, perché l’anno scorso qui sono nati 5 bambini, come non si vedeva da anni – di far crescere i figli a venti chilometri dall’ambulatorio di un pediatra.
E poi ci sono le emergenze. Certo, ci sono Claudio e i 43 volontari che giorno e notte garantiscono il servizio, anche ai tempi del Covid e con il rischio di contagiarsi. Ma l’auto medica è a Torriglia e qualche volta se la chiami ti senti rispondere: “Non riusciamo a venire, abbiamo già un’emergenza dalle nostre parti”.
Così per arrivare al primo pronto soccorso ti capita di metterci due, tre ore. Pensate se toccasse ai vostri vecchi.
Vero, presto ci sarà almeno la pista dell’elisoccorso per i casi più gravi, ma a pagarla sono stati gli abitanti che hanno messo su una castagnata. È la gente di qui che ha dato i terreni, che li ha ripuliti.

No, gli abitanti della Val Trebbia non devono ringraziare nessuno. Quello che hanno se lo sono guadagnato da soli.
Ma anche le donne e gli uomini dell’Entroterra sono cittadini. Gente che si alza alle cinque del mattino – a volte anche prima – per andare a scuola o al lavoro perché i mezzi pubblici ci mettono ore per fare venti chilometri.
Persone che fanno una vita che te la dico io pur di tenere aperto un bar, una trattoria o un negozio dove d’inverno la porta si apre un paio di volte al giorno se va bene.
Ragazzi che magari vorrebbero avviare un’attività di itticoltura per allevare pesci, sono pronti a metterci perfino i loro risparmi, ma da anni attendono ancora l’autorizzazione.
Bambini, anche, che finora riescono ancora a studiare nella scuola della valle – una manciata di bambini all’asilo, sei alle elementari, una ventina alle medie – ma chissà quanto durerà.

Eppure le soluzioni ci sarebbero. Servirebbe finalmente una connessione internet veloce per consentire di avviare un servizio di telemedicina e per spalancare le porte al telelavoro, ad attività didattiche e iniziative culturali anche da remoto. Perché, come suggerisce Margherita Asquasciati, non pensare a luoghi attrezzati, magari in Comune, per offrire spazi co-working forniti di tutti i servizi e i collegamenti necessari?
Ce lo ha insegnato il viaggio che la nostra lista ha appena fatto per studiare i trasporti pubblici in Svizzera: oltre le Alpi ogni valle è servita da treni leggeri che si arrampicano per le salite, che disegnano tornanti da brivido. E arrivano ovunque.
E c’è anche la Banca delle Terra che potrebbe mettere in società i proprietari dei terreni – magari troppo anziani – e i giovani che sono disposti a venire quassù per far nascere nuove attività. Così si rilancerebbero la coltivazione, l’allevamento, il recupero della terra e dei boschi, puntando magari su prodotti di qualità.
E attirando anche il turismo e nuovi residenti dall’estero. Come quei primi francesi che incontri camminando vicino a Casanova. 
Ecco, quello che manca è la volontà di chi governa. Il coraggio, anche, di immaginare soluzioni nuove.
Certo, ci si potrebbe anche arrendere. Lasciare, come è avvenuto per alcuni borghi del nostro Entroterra, che dei paesi restino soltanto le case, senza più luci, senza rumori e voci. Senza profumi che escono dalle finestre.

Basta guardare i vecchi registri delle nascita che Franceschi conserva in ufficio. Tutti scritti a china, con quell’inchiostro ocra e le linee svolazzanti. A ogni nome corrisponde una persona, una vita. Nel 1910 qui c’erano 1.860 persone, ogni anno contavi 70 nascite (oggi sono rimasti in 242, almeno sulla carta). Come Giovanni Biggi, della sua vita è rimasta solo una riga sul registro del Comune: nato nel 1832, morto nel 1916. E una foto, con il cappello e la giacca delle grandi occasioni, come mettersi in posa davanti al fotografo. Giovanni era uno dei lulli, gli uomini che vivevano, sopravvivevano, fabbricando l’esca. Andando su per i boschi di faggi e pini in cerca di quel legno, l’esca appunto, che serviva per accendere il fuoco.
Giovanni aveva dedicato l’esistenza alla sua valle. È anche per quelli come lui, forse, che non bisogna mollare.
Sennò alla fine non resterà nessuno, come scriveva il poeta Giorgio Caproni – che qui fu maestro ed è sepolto proprio nel cimitero di Loco accanto alla sua Rina Rettagliata – nel suo capolavoro ‘Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia’: “Meglio – lo so – è ch’io vada/ prima che me ne vada anch’io”.È questo che vogliamo? Perché, se è così, sarebbe più onesto dirglielo alla gente della Val Trebbia. Sennò mettiamoci tutti insieme per salvare il nostro Entroterra. Magari Elisabetta Canalis potrebbe donare quei 120mila euro per la gente della valle (sarebbe un modo per dimostrare il suo attaccamento a questa terra). E di certo dobbiamo finalmente utilizzare quei 400mila euro dimenticati nelle casse della Regione.

Noi, insieme con Linea Condivisa, abbiamo chiesto che sia convocata la Commissione Sanità insieme con i sindaci dell’Alta Val Trebbia e i responsabili della sanità regionale per affrontare la questione del medico.
Come Lista Sansa stiamo soprattutto preparando una proposta di legge dedicata all’Entroterra. Un testo che indichi finalmente soluzioni per la sanità, il lavoro, la scuola, i trasporti, il recupero delle terre. Ci stiamo lavorando, lo metteremo a disposizione di tutti.

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